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La politica italiana fra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del novecento: Giolitti e la guerra in Libia

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Alla fine del diciannovesimo secolo ci fu una crisi che segnò profondamente la politica e l’economia italiana. L’obiettivo era l’evoluzione del sistema liberale, che da lì fino all’avvento del fascismo avrebbe dato vita ad ampi dibattiti politici nella penisola italiana. La fine di questo secolo è segnata senz’altro dagli sforzi economici e bellici portati avanti da una infruttuosa campagna militare coloniale decisa da Crispi, finanziata fra gli altri, dalla compagnia Rubattino.

Fu proprio questo insuccesso coloniale a determinare la caduta dello stesso Francesco Crispi nel 1896. Tuttavia la crisi politica non fu scongiurata dal solo cambiamento ai vertici e il governo successivo presieduto da Antonio di Rudinì dovette affrontare gravi crisi e tensioni: egli propose una politica conservatrice, il cui obiettivo consisteva nel reprimere con la forza tutte le proteste popolari, senza riconoscerne la legittimità e discriminava ogni forma di protesta sociale, anche perché l’ascesa del socialismo e del comunismo marxista aveva determinato una preoccupazione crescente nella destra storica.

La tensione esplose ancora più energicamente con i “moti per il pane”: infatti, a causa di un cattivo raccolto e del contemporaneo blocco dell’importazione dei cereali statunitensi, dovuto alla guerra di Cuba, il prezzo del pane aumentò in maniera esponenziale e migliaia di tumulti esplosero in tutte le principali città italiane, e nei centri agricoli. Rudinì scelse la via della repressione violenta, rifiutando la possibilità dell’applicazione di un calmiere sul prezzo del pane. Gli scontri principali si ebbero nella città di Milano e l’asprezza di questi costrinse il presidente del consiglio ad attuare uno stato di assedio permanente, riuscendo così a ripristinare l’ordine nel paese: il progetto politico di Rudinì era miseramente fallito, così il governo passò in mano a Luigi Pelloux, generale piemontese. Quest’ultimo, ancora più radicale nell’approccio di Rudinì, presentò un progetto con dei provvedimenti che gravavano nettamente sulle libertà dei cittadini e, tra le altre, venne abolita la libertà di stampa e di associazione. I socialisti, i repubblicani e i radicali si unirono in parlamento, facendo ostruzionismo, tecnica politica in voga allora nei partiti di opposizione parlamentare. L’ostruzionismo rendeva interminabili le sessioni parlamentari, laddove un parlamentare poteva parlare da solo per ore, determinando la cessazione de facto dei poteri del parlamento. Si distinsero due uomini: Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti.

Nel 1900 si tennero le nuove elezioni e il governo venne affidato a Giuseppe Saracco, senatore giudicato super partes e in grado di ristabilire l’equilibrio fra le parti. Il 29 luglio di quello stesso anno, Umberto I re d’Italia, accusato di essere uno dei principali fautori di tutti i disordini sociali avvenuti nella penisola italiana, venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Si dice che arrivò dagli Stati Uniti, dove lavorava nel settore tessile frequentando al contempo un gruppo di emigrati italiani anarchici, proprio con lo scopo di uccidere il re.

È in questi anni che la principale svolta, già annunciata, si palesò nettamente: la svolta liberale. Il nuovo re Vittorio Emanuele III si dimostrò più propenso rispetto al padre ad assecondare l’affermazione di forze progressiste. Il governo Saracco fu costretto alle dimissioni, in seguito a delle decisioni, definite inadeguate, nei riguardi di uno sciopero generale portato contro  il governo: esso fu aspramente criticato dalle forze di sinistra liberale, guidate da Giuseppe Zanardelli che poco dopo prese il posto di Sarracco a capo del governo, con la complicità di Giovanni Giolitti, Ministro degli Interni, che in questi anni porrà le sue basi per il suo futuro politico. Si aprì in questi anni grazie al governo di Zanardelli-Giolitti una nuova fase di riforme: venne promulgata una riforma che limitava il lavoro minorile, all’epoca ancora molto frequente specialmente nelle miniere del sud Italia, e tendeva a migliorare le condizioni di lavoro della manodopera femminile. Fu proprio questo governo a riconoscere e rettificare la possibilità da parte del lavoratore di assicurare la propria vita sugli infortuni. È in questi anni che nasce l’ente della “municipalizzata”: i municipi ricevevano in appalto dallo stato per la gestione dell’elettricità, dell’acqua, dei trasporti e della raccolta dei rifiuti, nei casi d’avanguardia. Giolitti, inoltre, non era contrario al rapido svilupparsi delle organizzazioni sindacali in quegli anni e concesse il riconoscimento e ufficialità politica ai partiti di ispirazione marxista. È così che si svilupparono le Camere di lavoro composte per lo più da operai cittadini; e le “leghe rosse”, formate soprattutto da mezzadri e da braccianti, uomini dell’ambiente agricolo. Gli obiettivi principali delle leghe consistevano nel promuovere il dialogo tra operaio e stato per le questioni cruciali nella trattativa e regolamentazione tra le parti sociali interessate al lavoro: aumento del salario, riduzione degli orari di lavoro e miglioramento delle condizioni di lavoro.

In Italia, sebbene con qualche decennio di ritardo rispetto ad altri paesi europei (Francia, Inghilterra e alcune parti della Germania), giunse la rivoluzione industriale, che determinò l’avvento delle grandi concentrazioni di capitale umano e di tecnologia per la produzione sistematica di beni di ampio consumo: le fabbriche. Grazie a questo nuovo slancio produttivo, aprirono molti istituti di credito fra cui ricordiamo senz’altro la Banca commerciale e il Credito italiano, tutte cofinanziate inizialmente da fondi tedeschi: queste banche, specialmente all’inizio dell’attività, erano profondamente legate agli interessi statali. Giolitti nel 1893 era stato indagato in un grave scandalo che lo portò alle dimissioni per aver mandato in caos tutto il sistema finanziario nazionale, ciò fu solo uno dei tanti casi che vide le attività politiche e di governo collidere con gli interessi degli istituti di credito. Lo sviluppo industriale si sviluppò rapidamente in tutto il centro-nord, nel cosiddetto triangolo industriale, composto dalle città di Torino, Genova e Milano, dove erano presenti tutte le principali fabbriche e nodi (hub) di collegamento per il trasporto delle merci per le esportazioni, questo il caso del porto di Genova.

Il dislivello fra ʽle due italieʼ, settentrionale e meridionale, comportò un’emigrazione di massa dal sud verso nord: gente in cerca di lavoro nel sud Italia, le cui condizioni di vita erano ancora sotto il livello della povertà e che lo sviluppo economico era ancora decisamente lontano dai parametri europei e anche solo del nord Italia, nonostante Napoli fu la prima città italiana ad essere dotata di una fabbrica; questa gente, composta per lo più di giovani in cerca di lavoro, tentava la sorte nel settentrione. Ciò fu soprattutto per la mancanza di riforme per il sud: numerose erano le inchieste parlamentari e i dibattiti sulla cosiddetta “questione meridionale” ma pochi gli interventi. Il divario industriale era così netto che spesso durante i dibattiti nelle Camere sembrava si parlasse di due stati diversi: il sud, comprese Sicilia e Sardegna, avevano ancora una economia prettamente agricola, fondata sul latifondo, mentre nel nord erano già pronte le basi per un sistema economico composto da aziende agricole, tutelate dalle leghe contadine già citate, ben sviluppate, dotate di macchinari moderni e integrate con le nuove richieste dell’industria nascente.

Sulla base di un’Italia così divisa, eppure anche così integrata, si posero le basi per un lungo governo di Giovanni Giolitti che sedette nello scranno del primo ministro per oltre un decennio: dopo Cavour fu lui il più grande statista italiano per importanza, a partire dalla presa di Roma nel 1870. Giolitti ottenne il governo, assai spesso, mediante il controllo diretto dell’elettorato, cioè manipolandolo o esercitando coercizione diretta mediante l’uso della forza. Questo fu particolarmente rilevante in alcune circostanze e fu una triste pratica, questa, perseguita non solo da Giolitti.

Dopo il governo dimissionario di Zanardelli, nel 1903, arrivò il momento di Giovanni Giolitti che continuò l’esperimento liberale progressista che contraddistinguerà il ventennio successivo con fasi altalenanti. Il fatto che cercasse sempre una mediazione con gli altri esponenti delle diverse fazioni (cercò inutilmente di convincere Filippo Turati, storico socialista, ad entrare nella sua compagine governativa) impostò la sua prassi governativa sull’equilibrio e fu condizionato profondamente influenzato dai modi della sua stessa pratica, tanto da dover continuamente scendere a compromessi con le sue idee progettuali.

Ai primordi della sua opera governativa emanò nel 1904 le prime leggi speciali per il Mezzogiorno. La legge speciale sulla Basilicata prevedeva una modernizzazione dei sistemi agricoli, mentre quella su Napoli e dintorni era volta a incoraggiare gli imprenditori a sviluppare un sistema industriale che fino ad allora era in ritardo di sviluppo. Queste leggi furono seguite da quelle per la Calabria e ancora per la Sicilia e la Sardegna. Le riforme locali erano incoraggiate grazie alle inchieste governative, preziose oggi sotto un punto di vista storico, per investigare sulle condizioni delle regioni ai margini dell’intero sistema politico italiano e sfruttate solo per il gettito fiscale immediato del focatico, per il pane e per il sistema militare. Un altro importante progetto portato avanti da Giolitti consistette nella statalizzazione delle ferrovie nel 1904-1905, che fino allora erano ancora gestite da compagnie private, spesso inglesi. Questo progetto tuttavia si dovette scontrare con l’opposizione, spesso accanita, sia di destra che di sinistra: specialmente i socialisti erano contrari a votare favorevolmente questa mozione in quanto, approvandola, avrebbero reso inutile o impossibile lo sciopero dei ferrovieri (cosa che, a ben giudicare con il senno di poi, non sembra essere stata una pratica accantonata dalla manodopera delle ferrovie dello stato). Giovanni Giolitti, in seguito anche ad una malattia, si sentì in dovere di dimettersi e affidò il governo al gabinetto composto da Alessandro Fortis e Sidney Sonnino.

Questo governo che durò appena un anno (1905-1906) continuò la statalizzazione delle ferrovie e avviò la costruzione di grandi opere pubbliche, fra cui quella del traforo ferroviario del Sempione, che collegava per la prima volta l’Italia con l’alta valle del Rodano, in Svizzera.

Tornato alla guida del governo nel 1906, Giovanni Giolitti ridusse il tasso di interesse versato dallo Stato ai possessori di titoli sul debito pubblico, creando buone basi per un futuro più prospero in campo economico. Il successo di questa operazione economica si manifestò nel fatto che quasi nessun detentore di titoli li chiese indietro e questo grazie alla fiducia degli operatori nella finanza pubblica italiana, e lo stato guadagnò un gettito fiscale di 50 milioni annui. Quest’ultima cifra veniva riutilizzata annualmente per la nazionalizzazione delle ferrovie.

Nel 1907 ci fu una grande crisi, preambolo di una più generale che colpì tutti gli stati europei, ma che in Italia fu meno grave grazie all’intervento monetario della Banca d’Italia. Fu ugualmente un periodo di gravi lotte operaie. Nel 1908 la ricrescita economica riprese, ma non con gli stessi livelli che si ebbero nel decennio precedente. Nel 1909 Giolitti si ritirò nuovamente dalla scena politica: era una sua pratica politica ben collaudata quella di far cadere il governo, ritirandosi, prima che la situazione divenisse del tutto ingovernabile, mossa che gli consentiva di non perdere mai la fiducia dell’elettorato e dei grandi gruppi. Fu così dato spazio al governo Luzzatti, destinato anch’esso a brevissima vita, che avviò una importante riforma scolastica, con la legge Daneo-Credaro che dava allo Stato l’onere dell’istruzione elementare togliendola dalle mani dei comuni e, di fatto, dalla chiesta.

Dunque nel 1911 ci fu un nuovo ritorno alla vita politica di Giolitti, e nuovamente, fu nominato capo di governo dal re Vittorio Emanuele III e questa volta incentrò la sua questione politica sul “voto”. Infatti egli sosteneva che il voto dovesse essere esteso a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent’anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere o scrivere o che avessero prestato servizio militare. Il suffragio universale maschile era una prassi già presente nella maggioranza degli altri stati europei.

Il 1912 fu un anno di svolta drammatica di tutta la politica giolittiana. Giolitti entrò in guerra con la Libia. Facciamo un passo indietro: nel 1896 la politica estera italiana aveva subito un deciso cambiamento. Infatti attenuatasi la linea rigidamente filotedesca invalsa nel precedente decennio, si intensificarono i rapporti con le potenze dell’Intesa, composta da Francia e Gran Bretagna. Già nel 1898 ottimi rapporti furono ristabiliti coi francesi grazie alla firma di un nuovo trattato commerciale che poneva fine alle decennale guerra doganale e dopo nel 1902 grazie alla firma di un accordo che stabiliva che la Francia manteneva la sua sfera di influenza in Marocco e in Tunisia, mentre lasciava all’Italia il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, priorità di commerci, o di politiche coloniali. Nel frattempo i rapporti fra Italia e la triplice Intesa si fecero tesi poiché al governo italiano non piacque il modo in cui l’impero austro ungarico, con l’appoggio della Germania, annesse al suo dominio la Bosnia Erzegovina, senza chiedere il consenso italiano. Inoltre si fece sempre più forte nei circoli nazionalisti italiani il pensiero di riscossa nei confronti del Trentino e della Venezia Giulia, gli irredentisti che non consideravano il processo di unificazione dell’Italia terminato e, con esso, il risorgimento italiano. I movimenti nazionalisti erano uniti sotto il pensiero di Enrico Corradini secondo cui il problema in Europa erano i contrasti non fra le diverse classi all’interno di uno stato, ma la differenze fra nazioni capitalistiche e nazioni proletarie: i nazionalisti giustificavano, e propugnavano, un’eventuale guerra coloniale in Libia e successivamente quella di redenzione settentrionale. In questa campagna di propaganda i nazionalisti trovarono degli alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma che da anni attuava degli importanti finanziamenti nell’area tripolitana. Tutti questi elementi portarono a spingere il governo italiano sulla via dell’intervento. Nel settembre del 1911 gli italiani sbarcarono in Libia con un contingente di 35.000 uomini. Ci fu scontro aperto con le poche forze dell’Impero Ottomano, che esercitava su quel territorio la sovranità, seppure nominale.

Questa guerra si dimostrò più complicata e difficile del previsto in quanto i turchi erano provvisti di un corpo militare meglio addestrato, sebbene meno numeroso. Vista la difficoltà della guerra il governo italiano dovette aumentare di circa 60.000 unità l’esercitò, espandendo anche l’area del conflitto, includendo l’arcipelago del Dodecaneso nel Mar Egeo. Era l’ottobre del 1912 quando venne firmata fra l’impero e la monarchia italiana, la pace di Losanna, che, di fatto, determinava la vittoria dell’Italia, che acquisì la zona attorno a Tripoli e la Cirenaica. Il sultano conservò l’autorità religiosa sulle popolazioni musulmane.

Gli italiani fino al 1923 mantennero con molta difficoltà le isole del Dodecaneso e di Rodi in quanto incursioni di arabi turchi rimasero costanti. La guerra in Libia non solo portò le casse dello stato al collasso, ma si rivelò anche successivamente un pessimo affare: naturalmente, all’epoca nessuno poteva sospettare che la Libia sotto la torrida sabbia del deserto sahariano nascondesse barili, dal valore inestimabile all’epoca, di petrolio. Tentativi per scoprirlo furono fatti solo successivamente e con mediocri risultati, determinate sia all’insufficienza tecnologica sia alla sporadicità dei tentativi.

Il quarto governo di Giolitti era iniziato nel 1911 per finire nel 1914 e in questi anni oltre la dispendiosa guerra in Libia, aveva lavorato sulla statalizzazione delle assicurazioni lavorative. Piuttosto, dovette tenere a bada con la sua politica “calmieratrice” le idee irredentiste che scoppiarono poi con la prima guerra mondiale, la quale vide però protagonista il governo di Antonio Salandra, seguace di Giolitti.

Dopo un ultimo governo nel cosiddetto biennio rosso (1919-1920) l’ideologia politica di Giovanni Giolitti fu destinata all’emarginazione. Ma a Giolitti si deve ascrivere l’innegabile merito di aver favorito la democratizzazione dell’Italia, di aver promulgato leggi speciali per la classe lavoratrice e di aver affrontato la questione meridionale; tuttavia improntò la sua politica sulla mediazione parlamentare senza concentrarsi, quando necessario, sul vero problema del giovane stato: le masse scioperanti. Infine Giolitti è definibile come un liberale progressista e un conservatore attento capace di adattarsi bene alle richieste della fazioni politiche opposte alla sua. “Egli disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito. Egli dunque era convinto di dover governare un paese “gobbo” che non aveva intenzione di “raddrizzare” ma realisticamente governare per quello che era”.[i]


Cronologia delle cariche politiche di Giovanni Giolitti.[ii]

Presidente del Consiglio

15 maggio 1892 / 27 settembre 1892

23 novembre 1892 / 15 dicembre 1893

3 novembre 1903 / 18 ottobre 1904

30 novembre1904 / 12 marzo 1905

29 maggio 1906 / 8 febbraio 1909

24 marzo 1909 / 11 dicembre 1909

30 marzo 1911 / 29 settembre 1913

27 novembre 1913 / 21 marzo 1914

15 giugno 1920 / 7 aprile 1921

11 giugno 1921 / 4 luglio 1921

Ministro degli Affari Interni

15 maggio 1892 / 15 dicembre 1893

15 febbraio 1901 / 21 giugno 1903

3 novembre 1903 / 12 marzo 1905

29 maggio 1906 / 11 dicembre 1909

30 marzo 1911 / 21 marzo 1914

15 giugno 1920 / 4 luglio 1921

Ministro delle Finanze (Tesoro)

9 marzo 1889 / 10 dicembre 1890


Wolfgang Francesco Pili

Sono nato a Cagliari nell’aprile del 1991. Ho da sempre avuto nelle mie passioni, la vita all'aria aperta, al mare o in montagna. Non disdegno fare bei trekking e belle pagaiate in kayak. Nel 2010 mi diplomo in un liceo classico di Cagliari, per poi laurearmi in Lettere Moderne con indirizzo storico sardo all'Università degli studi di Cagliari con un'avvincente tesi sulle colonie penali in Sardegna. Nel bimestre Ottobre-Dicembre 2014 ho svolto un Master in TourismQuality Management presso la Uninform di Milano, che mi ha aperto le porte del lavoro nel mondo del turismo e dell'accoglienza. Ho lavorato in hotel di città, come Genova e Cagliari, e in villaggi turistici di montagna e di mare. Oggi la mia vita è decisamente cambiata: sono un piccolo imprenditore che cerca di portare lavoro in questo paese. Sono proprietario, fondatore e titolare della pizzeria l'Ancora di Carloforte. Spero di poter sviluppare un brand, con filiali in tutto il mondo, in stile Subway. Sono stato scout, giocatore di rugby, teatrante e sono sopratutto collaboratore e social media manager di questo blog dal 2009... non poca roba! Buona lettura

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